Terzo appuntamento con la rubrica sulla lettura, e sulle riflessioni che ne derivano, da parte di un nostro redattore che ha sempre qualche buon libro da consigliare su argomenti di grande attualità.
Falsi amanti , solo odio
Eccoci alla terza puntata della rubrica “Letture, commenti e consigli”. Questa volta scenderemo nelle profondità di una filosofia brutalmente misantropa, odiatrice della vita, spietatamente asettica. Per svariate ragioni, in questo periodo m’è passato per le mani un libricino di poco più di cinquanta pagine, una lunga lettera a Paolino scritta da uno stoico dell’età imperiale: parlo di Lucio Anneo Seneca e del suo “De brevitate vitae”.
Ebbene, tante onde di altrettanti mari si sono infrante contro i miei occhi, ma nessuna generata da cotanto odio, tale da sentirne l’odore capitolo per capitolo, pagina per pagina, parola per parola: tutto trasudava rancore per la vita, impotenza di fronte ad essa, inattività. Il filosofo, infatti, denuncia una serie di mali, di vizi, di sprechi di tempo che renderebbero la vita indegna di essere vissuta, che la sgretolerebbero come l’acqua contro gli scogli e porterebbero, infine, all’inconsapevolezza di sé: fra questi annovera il vino, la lussuria, la concessione del proprio tempo ad altri, l’avarizia, l’ostentazione, l’oltremisura; tutto ciò che è umano, insomma. A primeggiare tra queste serpi, o presunte tali, è la mostruosità del tempo “concesso ad altri” che ci priverebbe della nostra stessa vita e ci indurrebbe a guardarla da lontano e misconoscerla, a non comprenderla e a non darle i suoi legittimi natali. Allora, e qua risiede tutto l’odio per essa, da bravo stoico quale è, Seneca offre il suo farmaco: combattere le passioni che rendono l’uomo schiavo, che ne turbano la tranquillità tanto agognata dai filosofi del portico. Vuole chiudere l’uomo nelle biblioteche a studiare i grandi e gli antichi, ma non come a taluno garbi, bensì come egli stesso prescrive: solo i più saggi, i più sapienti, coloro che realmente hanno apportato del bene alla civiltà, ma sempre secondo il suo giudizio. Non sentite la puzza di stantio, dell’efferato omicidio criminale contro la vita? La volontà di uccidere le passioni, all’apparenza tanto condivisibile da un occhio poco accorto, tradisce l’impotenza del filosofo davanti ad esse: non essendo in grado di dominare l’irrazionale emotivo, il magma passionale (chi può esserlo?), vuole eliminare tutto, cancellarlo, e si trova infine sopraffatto dalla natura, dalla sua stessa natura; si odia guardandosi allo specchio, osservando tutta la sua umanità, ovvero animalità. Gli è bastato gettare un occhio dentro di sé per accorgersi della sua impotenza e subito ha distolto lo sguardo, incapace di reggerlo. Pertanto, la volontà di dominare l’istintività umana sta alle fondamenta dell’intero suo pensiero. Mi chiedo a cosa si riduca l’uomo senza i suoi istinti, le sue passioni, senza l’irrazionale. Solo chi ne è spaventato può scappare da esso, rifugiandosi sotto la gonna di mamma Razionalità, che altro non è se non l’omicida della natura e generatrice di ogni sevizia contro di essa. Si continui, però, con altri punti di domanda che affiorano alla mente: come mai dico che, oltre a odiare la vita, Seneca odia l’umanità e si sfoga contro di essa per sua stessa inattività? Addita come “inumano” ciò che è profondamente “umano”, sin troppo; eleva a “degno d’uomo” l’assassinio più turpe, ma come mai? Molto semplice. I Romani erano un popolo attivo, pragmatico, volto all’azione, al conflitto, alla propria affermazione su altre popolazioni, tutto fisiologicamente incompatibile con la bestia da scrivania per eccellenza cui Seneca ha ridotto l’umanità, non altro che l’estensione di sé stesso all’uomo tout court. E ancora volontà di dominio, di imposizione, prevaricazione, tutti gorgoglii connaturati all’umanità di cui nemmeno lui si rese conto, o mai avrebbe insistito sulla medesima via tracciata dalla lettera in questione. Ecco la frustrazione venir fuori, uscire dalla sua tana e mostrarsi per ciò che è. Vedere sé diverso dagli altri e darsene una spiegazione per sopportare il vivere. Quale modo migliore se non pervertire i valori di virtù e vizio, di bene e male, di giusto e sbagliato? Là dove i Romani muovevano, lui arretrava, e dove lui avanzava, ivi i Romani arretravano. Spostò i pesi per far pendere il braccio della bilancia della Giustizia in suo favore. Odio, frustrazione, accanimento, inadeguatezza e, forse, un pizzico di invidia, paura e gelo in primis. Non sono queste passioni? Non sono forse, fra tutte, le peggiori di un uomo? Non è esattamente questo che porta all’infelicità di un’esistenza, certamente misera e dunque straripante di ressentiment, per citare Nietzsche? Proprio quelle passioni di cui voleva liberarsi: ancora una volta la natura e l’istinto hanno palesato la loro supremazia sulle faccende umane, nient’altro che loro stessi affari; e lui, da carnefice, s’è tramutato in triste vittima. Lui solo, e gli stoici o ascetici suoi alleati nella lotta alla vita, sono coloro che non riescono a “rifugiarsi in sé”, e dunque ne sono inconsapevoli, per usare le sue stesse parole. Troppo odio, troppo disprezzo, nessuna forma d’amore nella sua vita. Immaginate! Immaginate una vita priva di passioni, privata dei colori, ridotta ad un insieme di attimi senza senso. Cosa ne ottenete? Il grigio, lo sciapo. Seneca denuncia illustri reati, senonché fallisce nel percorso di riabilitazione: non è l’eliminazione, ma l’esasperazione, la soluzione agli strazi dell’uomo, ancorché distruttiva. Permettetemi un esempio: si narra del re di Tebe, Penteo, che, forte della sua razionalità, imprigionò l’irrazionalità pura di Dioniso. Non appena ne sentì il sussurro, un leggero fruscio, sebbene resistette, ma solo per poco, volle bere dalle sue profondità, cadde nell’abisso e ne rimase ucciso. Spietato, non trovate? Sicuramente, rispondo. Ma, insieme, chiedetevi se Penteo abbia vissuto meglio quella sua vita di prigionia fra gli officia o i pochi secondi in armonia con la sua naturale essenza: se avete mai provato un briciolo di passione, la risposta vi parrà ovvia. Lo stesso vale per tutti: chi disdegna le passioni, chi mai le ha accarezzate, non si è nemmeno mai avvicinato ad esse; chi, dopo averle provate, vuole eliminarle, è debole, devastato dalla loro potenza , vuole il controllo, sicché è maniacale. Allora, meglio trascorrere una singola vita come il giovane Werther di Goethe che anche mille da Seneca : l’uno odiò sé stesso, ma amò la vita; l’altro odiò, non solo sé stesso, ma anche la vita e con essa i suoi stessi simili, quelli che, infatti, diceva uguali a lui.
Marco Scognamillo
Classe 4^E Liceo Classico