Famosa è la lettera che Petrarca indirizza all’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro, frate agostiniano e teologo. Francesco racconta l’impresa della scalata del Monte Ventoso, realizzata insieme al fratello Gherardo nella primavera del 1336.
Mentre il fratello va spedito verso la meta, Francesco cerca percorsi alternativi, meno faticosi. Alla fine raggiunge la cima, ma a fatica e molto dopo Gherardo.
La lettera di Petrarca è una grande allegoria delle sue difficoltà nello sfuggire a una profonda crisi spirituale – la lettera è in realtà composta intorno al 1352-53 – e rappresenta un’occasione di riflessione sugli ostacoli che si frappongono sul cammino di una persona verso le proprie aspirazioni.
Qui puoi leggere un brano della lettera:
https://letteritaliana.weebly.com/lascensione-del-monte-ventoso.html
Quale fu la risposta di Dionigi da Borgo San Sepolcro?
Due nostri redattori, Michele Bagella e Lorenzo Catta, si sono messi nei panni di Dionigi e hanno risposto a Petrarca.
DIONYSIUS FRANCISCOS.D.
La montagna è da sempre, caro Francesco, il luogo più affascinante di tutti, perché è dove più di tutti ci si avvicina al regno di Dio e, difatti, molte volte nelle Sacre Scritture i monti fanno da sfondo a episodi fondamentali per la storia dell’uomo: fu il Monte Sinai a mettere in contatto il grande profeta Mosè con l’Altissimo attraverso il rovo ardente e sempre in quel luogo il patriarca ricevette le tavole della legge; il Monte Tabor in Israele fu scelto come teatro della miracolosa trasfigurazione di Cristo, in cui si mostrò agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni il corpo del Vero Uomo e Vero Dio. L’altezza della Torre di Babele, al contrario, non fu concepita con l’idea di comunione tra l’uomo e il suo Creatore, la riconciliazione tra due mondi che si sono sempre amati ma che, per colpa di una mela, non poterono mai stare assieme, fu invece per il mal seme d’Adamo un atto di sfregio, di superba rivalsa nei confronti di chi li aveva giustamente privati dell’Eden e per tale ragione furono puniti in modo esemplare.
Il tuo animo dunque non può che risultare rasserenato da questa tua scalata per i bei monti della Provenza. Tuttavia penso che il tuo turbamento non sia ancora stato totalmente debellato. Ma non preoccuparti, poiché, e questo vedo l’hai ben capito anche tu, il cammino verso Dio è lungo e tortuoso. Ciò che ti sfugge, a mio parere, ciò che ti impedisce di essere davvero felice è il tuo amore: grandissimo nei confronti del mondo degli antichi, immenso verso la Poesia e il pensiero dei filosofi, illimitato per la tua donna, totale per Dio Onnipotente, nullo verso te stesso. Tu nel profondo ti odi, non è vero Francesco? Eppure ti rifiuti di ammetterlo: come mai? Forse perché non è possibile che Scipione, prima di divenire a Zama il più illustre tra gli uomini, abbia detto al suo fidato Lelio “non ho la forza di vivere”? E come lui neanche i tuoi amati Cicerone e Seneca, o il sommo Virgilio, o Ovidio o infine lo stesso Agostino. Hai passato la vita a narrare il valore degli uomini del passato e, così facendo, hai trascurato te stesso. Ma che bisogno c’era? Non siamo poi tutti uguali agli occhi del Padre? Eppure tu hai continuato a voler scoprire come diventare simile a loro, rifugiandoti nella letteratura e nella filosofia morale, credendo così di divenire un uomo che verrà ricordato dai posteri. Così più “Petrarca”, l’arca di pietra, acquisiva fama e gloria, fino alla laurea poetica, più “Francesco” si rintanava in un angolo dell’anima, sempre più indifferente nei confronti di ciò che importa davvero. Ti sei allontanato sempre di più dalla salvezza dello spirito per inseguire i piaceri della carne, le ricchezze di questa Terra, per provare a incatenare il Tempo e a costringerlo a urlare il tuo nome per sempre, dimenticando che è la semplicità quaggiù ad aprire le porte alla ricchezza lassù.
Ricordati, a rendere l’uomo la più nobile delle creature di Dio non è il pensare, perché attraverso l’intelletto è in grado di concepire il fascino del Male e a perseguirlo, non è la consapevolezza dell’esistenza di Dio, poiché essa non è comunque sufficiente a contemplarLo, ma è l’amore nei confronti di sé stessi, del nostro animo, originato dall’Alto Ingegno del Creatore, che ci permette dunque di comprenderLo, di ascoltarLo e di amarLo. Spero che le Confessioni che ti ho donato e il cammino di Vita che Dio ha tracciato per te possano farti comprendere appieno queste mie parole.
Da Monopoli, 15 Maggio
Lorenzo Catta
Classe 3^D Liceo Classico
Ad un certo punto, addentrandomi nel racconto, mi sono inevitabilmente immerso nelle tue parole; tra rocce e alberi, circondato da vasti paesaggi e avvolto dalla fresca aria di montagna che, salendo più in alto, si fa via via più rarefatta, camminavo proprio in quel sentiero: in quel momento, le tue parole, piatte, ferme, inermi, impresse indelebilmente sulla lettera che giace ivi di fianco a me, sono diventate il mezzo con cui ho potuto viaggiare, ho potuto rievocare emozioni di luoghi tangibili, reali. Descrizioni che non sarebbero mai giunte a me se tu, di fronte alla mole di questo monte e colto da un momento di pigrizia, non avessi deciso di intraprendere tale impresa. Ritengo infatti la tua decisione di accingerti a scalarlo degna di non poche parole: sono infatti i luoghi più vicini a noi quelli che con minore probabilità ci troveremo a visitare; rimandando la data della loro visita a giorni più favorevoli — con un clima più mite, o in un periodo della nostra vita meno travagliato — e dunque, vista la loro vicinanza, pensando di prender decisioni corrette e ponderate, in realtà stiamo facendo volare via ogni opportunità ed esperienza che di volta in volta ci si pone dinanzi; stiamo ingannando noi stessi, e dunque la nostra anima, in un ciclo vizioso in cui, nello sperare in un giorno migliore, nel porre fiducia nel futuro, veniamo traditi dal futuro stesso. E poiché d’altronde tu stesso hai affermato all’inizio della tua lettera che sei solito vedere questo monte sin dall’infanzia, non posso far altro che considerare la tua esperienza — alla luce di quanto ti ho appena esposto — positiva: non solo avevi la volontà di farlo ma, riprendendo ancora una volta le parole di Ovidio, ardivi di farlo, ed è proprio questo ardore che ha spronato la tua anima ad intraprendere l’impresa.
Scorrendo tra le tue riflessioni, l’evento scatenante che ti ha portato a confessarmi al termine della lettera tali pensieri è chiaro che risulti essere il viaggio. E come tu mi hai più volte sottolineato perlopiù implicitamente, il termine viaggio è ambivalente: può essere usato per riferirsi alla più terrena e carnale delle esperienze — come il viaggio in montagna di cui mi hai tanto narrato — così come per alludere a viaggi spirituali come, per l’appunto, quello dell’anima; ed è proprio contrapponendo l’esperienza che hai appena vissuto con il viaggio spirituale che tanto aspiri a compiere, ma che ritieni impossibile a farsi, che potrai comprendere come i due viaggi siano, nel loro essere così diversi, così simili. Filtrando le esperienze vissute, è possibile apprendere e scoprire tanto su quelle a venire; perché cos’altro è il passato, se non il futuro cristallizzato nel tempo? Il viaggio dell’anima, esattamente come quello terreno, pone dinanzi al viaggiatore una mole importante di ostacoli; è dunque suo compito, trovandoseli di fronte, di pensare, ponderare, e modificare il cammino a seguito di opportune considerazioni; perché nessuno ha mai stabilito che il viaggio debba seguire una linea retta, e che la via debba essere già stata tracciata. Forse in questo caso non c’è un giusto o uno sbagliato, ma solo un punto di arrivo. Io penso che tu, consapevole della tua pigrizia, ti stia abbandonando ad essa, e ti stia precludendo delle strade che non dovresti precluderti. È fondamentale che i peccati dell’uomo rimangano circoscritti e che, presa piena consapevolezza di essi, non si espandano, non abbraccino contesti che non sono propri ad essi. Penso che sia questo quello che sta accadendo a te, che tu sia troppo pigro per dare forma, dimensione e colore alla pigrizia stessa che ti attanaglia, instaurando così un ciclo senza fine; ritengo che tu sia troppo assuefatto da essa per varcare la prima soglia del tuo lungo viaggio. Non permettere che la tua pigrizia rincorra se stessa, come un cane rincorre la sua coda; non permettere che si generi un turbine vorticoso che, trascinandoti giù, a terra, nella valle, ti impedisca di salire su e di compiere il tuo tanto desiderato viaggio. Sebbene sia arduo liberarsi dei propri peccati, dev’essere ora tuo primo pensiero circoscriverli, e non permettere che dilaghino nel tuo animo, corrompendolo del tutto: questo è quel che penso. Qualsiasi problema, scomposto nelle sue parti più infime, delineato in un ben preciso spazio, è affrontabile nel modo più funzionale e pratico.
Come forse avrai intuito scorrendo tra queste parole disposte ordinatamente di fronte ai tuoi occhi, quel che ti ho scritto potrebbe voler dire assolutamente tutto, come potrebbe voler dire assolutamente niente: assolutamente tutto perché le cose di cui ho trattato in questa lettera sono molto vaghe, e dunque quasi universali; assolutamente niente per lo stesso identico motivo. Questo è tutto quello che penso, tutto quello che posso fornirti e tutto quello che, nella mia più completa speranza che tu un giorno abbia l’opportunità di intraprendere il tuo lungo viaggio e di raggiungere la tua agognata meta, ho da lasciarti qui, impresso su carta, imperituro. In fede.
Michele Bagella
Classe 3^D Liceo Classico